Fin dalla scorsa estate il famigerato spread – il differenziale di rendimento dei titoli di Stato del nostro Paese nei confronti degli omologhi tedeschi, i Bund – era salito a quota 600 punti base. Un aumento così repentino del principale indicatore della credibilità di un governo sui mercati azionari ha quindi implicato, oltre a discusse riforme fiscali e previdenziali, innanzitutto la caduta dell’esecutivo dell’ex premier Berlusconi.

Dal 16 novembre dello scorso anno, giorno in cui si è insediato il nuovo governo di Mario Monti, al momento attuale, il valore dello spread è nuovamente sceso di quasi 300 punti base. Con il governo Monti la tendenza è infatti cambiata in maniera sensibile, anche parallelamente ai progressi europei sul tema della convergenza fiscale.

Come accennato pocanzi, negli ultimi giorni il differenziale  è sceso sotto i 300 punti base: si tratta di un eloquente sintomo del recupero di credibilità del Paese, ovvero di una maggiorata affidabilità del rischio-Italia contestualmente al mercato finanziario. Il punteggio dello spread rimane una variabile presa in seria considerazione dall’esecutivo attuale.

Al fine di risanare un bilancio pubblico non è però sufficiente aumentare la tasse, poiché è altresì necessario un netto taglio alle spese statali.

I tassi di interesse sul debito pubblico costituiscono ormai una partizione non secondaria degli esborsi attuali, quantificandosi in una spesa di 70 miliardi di euro l’anno (pari al 4,5% del PIL nazionale italiano). In uno scenario privo di spese per gli interessi, il bilancio avrebbe già raggiunto il pareggio.

Ciò che è stata indicata da più parti come l’austerity montiana si prefigge, dunque, l’obiettivo di instillare fiducia nei mercati e, così facendo, diminuire i valori dei tassi di interesse connessi al debito. Minori interessi implicano un rallentamento della crescita del debito nazionale e possono quindi favorire il risanamento di un’economia.

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